Presentazione del libro “ Il Filo”
Arona, città della cultura, 7 luglio 1995
Ringrazio tutti voi di essere qui e in particolare ringrazio mia madre per l’apertura e la disponibilità con cui ha saputo accogliere questo lavoro. Si è trovata infatti, suo malgrado, a fare i conti con una pubblicità che non cercava.
E poiché buona parte dei lettori tende purtroppo a confondere i personaggi di un romanzo con la persona dell’autore e di chi gli è vicino, dovrà subire le proiezioni di chi legge che io forse ho voluto attirare, lei no. E ringrazio Anna Del Bo Boffino: la sua presenza ha un significato particolare per me.
Anna non è solo la giornalista e scrittrice nota a tutti per il suo impegno e per il coraggio nell’affrontare temi essenziali, come la vita della donna, la coppia, le relazioni familiari, la sessualità.
La presenza di Anna significa per me riannodare un filo. Perché è da lei che ho imparato, appena terminata l’università, collaborando alla sua rubrica “Amica per due” una particolare attenzione a questo tipo di problematiche, uno sguardo più profondo. Faccio risalire a quegli anni l’inizio di un percorso che mi ha portata ad approfondire dal punto di vista interiore il significato dell’essere donna nella nostra società, i rapporti col maschile, con i figli, con il lavoro.
Proprio lavorando come giornalista ho scoperto di avere l’esigenza, direi addirittura la necessità di sapere, di conoscere me stesa ma anche le altre donne, e gli uomini, e le relazioni tra le donne e gli uomini.
Quando raccogliere dati e informazioni dal punto di vista sociologico, preparare inchieste e interviste non mi è parso più sufficiente, questa necessità mi ha spinta verso l’analisi terapeutica, per trovare una risposta ai conflitti che l’essere donna mi procurava. Il bisogno di scrivere, nel senso di scrivere romanzi o racconti, di esprimere insomma quello che mi portavo dentro, è nato circa tre anni fa, al termine dell’ultima esperienza analitica, con A. Virel di Parigi, il teorico dell’Imagérie Mentale. E’ stato come aprire una porta per entrare, non senza paure, in un mondo nuovo.
E per farlo ho dovuto abbandonare le strade che conoscevo, lasciarmi andare per scoprire, come un prestigiatore, quello che sarebbe uscito dal cilindro: conigli e colombe, sì, ma anche rospi e lucertole.
Oggi, se penso a scrivere, mi immagino così: cammino su un filo teso all’orizzonte, in un paesaggio senza riferimenti. Muovo i primi passi con esitazione, per paura di cadere di sotto ma, a poco a poco, comincio a prenderci gusto, in questo esercizio. Riesco a sollevare una gamba, poi tento una capriola, resto aggrappata a un filo a testa in giù e, infine, mi lascio lentamente scivolare nelle acque del mare.
Come una piccola Alice scendo, scendo nel silenzio e, in questa discesa, perdo il senso del copro, divento conchiglia. Sul fondo sabbioso, mi lascio percorrere dall’acqua che apre e chiude le valve. E’ bello, abbandonarsi.
Ma veniamo al “Filo”.
Mi è sempre stato a cuore il tema dell’ascoltarsi, perché credo che viviamo in un mondo in cui pochi sanno che cosa significhi. Ascoltare e ascoltarsi sono parole così semplici, ma ci vogliono anni per capirle. Io ne avevo ventiquattro quando il mio primo analista, che non parlava mai, un bel girono se ne uscì con una frase: “Impari ad ascoltarsi”. Al momento non capii il significato di quelle parole e per molto tempo continuai a chiedermi: “Adesso mi sto ascoltando, sarà ascoltarsi questo?” Non potevo domandarlo a lui, che difficilmente mi avrebbe risposto, o forse non volevo, perché mi vergognavo di domandare il significato di una parola in apparenza così semplice. Ascoltarsi. Adesso sono io a pronunciarla tante volte: “Si ascolti, impari ad ascoltarsi”. I pazienti mi guardano con aria interrogativa, alcuni rispondono: “Sì, lo farò”, ma si vede che non hanno capito. Viviamo in un mondo in cui pochi, veramente pochi, sanno che cosa significhi. Parliamo, ridiamo, corriamo, balliamo, guidiamo, facciamo sport, ci riempiamo i timpani di musica, voci, suoni, rumori. Compriamo, viaggiamo, lavoriamo, lavoriamo. Ma chi si ascolta? Quanti rallentano il ritmo e si fermano per ascoltarsi?
Ascoltare la propria voce interiore, quella che parla di sentimenti, affetti emozioni, desideri… Quanti sanno distinguere quella voce dalle altre, dalle centinaia di voci che ci bombardano dall’esterno? Quanti distinguono la voce della propria parte selvaggia, genuina, dalle voci dei condizionamenti e delle dipendenze?
Le persone non si ascoltano perché hanno paura: di scoprirsi diverse, di conoscere parti di sé che preferirebbero tenere nascoste. Rifiutano di prendere coscienza dei condizionamenti, delle dipendenze, delle compensazioni: li negano.
L’idea che mi girava in testa cominciando a scrivere era dunque di raccontare un percorso sulla strada dell’ascolto di sé e , di conseguenza, dell’amore per se stessi, senza il quale non è possibile parlare di amore per gli altri. Più che del progetto di un libro si trattava di uno stato d’animo, di un desiderio. La prima stesura, il doppio, come dimensioni, rispetto al libretto di oggi, s’intitolava ”Percorso d’amore” e spiegava molto più nei dettagli i fatti, che venivano in un certo senso anche interpretati. All’editore andava bene anche così: sarebbe stato senza dubbio un libro più facile. Perché “ Il filo” può sembrare un libro scorrevole, ma non è certamente un libro facile.
Dunque, dicevo: avventurandomi alla cieca in quel mondo sommerso che avevo scoperto dentro di me, superata ancora qualche paura, ho trovato questo dialogo…Di getto, si può dire in pochissimi gironi, ho scritto, automaticamente, questo libretto. Avevo cambiato registro. Non mi andava più di spiegare. Saranno costretti ad ascoltarsi per capire, dissi fra me e me.
Mettendomi a scrivere, dunque, avevo tutt’altra intenzione che di parlare del rapporto madre-figlia, ma il libro ha preso la sua strada da sé. Vi confesso che mi sono resa conto del possibile significato solo dopo aver letto il commento dell’editore che ora compare nella quarta di copertina, che mi ha ricordato un’osservazione di Anna Boffino su quanto fosse importante, nella prima stesura, la tensione nel dialogo fra le due donne.
Oggi mi trovo, a posteriori, a cercare insieme a voi di dare un senso all’operazione, come la chiama qualche mio amico. Pur lasciandovi estremamente liberi di dare tutte le interpretazioni che vorrete al romanzo, vorrei aiutarvi a trovare quel filo che lega gli avvenimenti e dà un senso alla storia.
Per me è difficile, se non impossibile, parlare del libro. Margherite Duras spiega bene in “Scrivere”, l’ultimo saggio pubblicato da Feltrinelli, : “E’ impossibile parlare a qualcuno di un libro che si è scritto e, soprattutto, di un libro che si sta scrivendo. Quando un libro è terminato, un libro che hai scritto, intendo, non puoi più dire, leggendolo, che è un libro che hai scritto, né quali cose vi sono state scritte, né con quale disperazione o felicità…La scrittura è in certo qual modo uniforme, placata. Non succede più niente, in un libro terminato e distribuito”.
Con le dovute distanze e il rispetto che merita una delle più grandi scrittrici della nostra epoca, mi permetto di dire che mi ritrovo in questo sentimento. Vorrei che foste voi lettori a scoprire il senso de “ Il filo”.
Quello che posso fare, per aiutarvi, è fornirvi alcuni suggerimenti per la lettura:
1) Assumete un’ottica interiore. Fate il possibile per ascoltarvi e per ascoltare i sentimenti che emergono, o cercate quelli che non emergono più perché bloccati. Ma attenzione alle proiezioni: è vero che siamo liberi di farle, ma sarebbe meglio prenderne coscienza.
2) Tenete conto di quello che disse Jung: “Ogni donna contiene in sé la propria madre e la propria figlia. Ogni donna si amplia per un verso nella madre, per l’altro nella figlia. La vita di ogni donna sta lì, nella fusione e nella confusione.
Da questa partecipazione e fusione nasce l’incertezza del momento ‘tempo’: da madre si vive prima, da figlia poi.” Forse, vuol dire Jung, si è madre della propria madre prima di poterne essere figlia? E continua: “ C’è un filo che unisce ogni volta una madre e una figlia: è l’archetipo. Si deve passare da lì. La donna è una in se stessa se riesce ad essere anche dell’altra, la madre<. <figlia e madre e della propria madre in un sentimento di liberazione dal tempo. Si nasce dalla propria a madre, si rinasce nella madre: questa è anche l’esperienza dell’analisi. Fare da madre i analisi significa porsi come figlia: perché è la figlia che si muove ed è la madre ad essere statica. Dunque potremmo vedere la scrittura creativa come canale del parto, della rinascita. Perché l’inconscio è l contempo madre e figlia, e la madre ha generato la propria madre e suo figlio era suo padre:”
Vorrei leggervi, a questo proposito, una poesia. E’ la poesia scritta per la psicanalista Lella Ravasi Bellocchio da una paziente.
Ho trovato un’amica gentile
Mi ascolta
Quando parlo, piango e mi dispero
Tira la mia vita con fili sapienti
e ne ricava il meglio
Recalcitro davanti alle nude verità
Che mi mette davanti
Ma di queste avevo bisogno.
3) Nel romanzo si parla di nostalgia. Sembra che sia difficile da capire.
Nostalgia: dolore del ritorno o ritorno con dolore. Il ritorno a qualcosa che la persona è effettivamente ma anche qualcosa di più: un’analisi che sia efficace si traduce per il soggetto in una visione rafforzata delle proprie capacità creative.
Ma prima bisogna toccare il fondo. La nostalgia è un sentimento che interviene da protagonista sulla scena analitica aprendo squarci e finestre sul mondo della lontananza.
4) Perché il dialogo?
Perché il dialogo rappresenta il luogo, starei per dire il settino, in cui si attua quella dialettica fra le parti interne che è il nucleo del problema. Dicono che si scriva quello che si vorrebbe leggere.
Io, fin da piccola , leggendo cercavo i dialoghi. Cercavo le parole, lo scambio di sentimenti fra i personaggi.
La psiche, dice Gilligan, è un processo dinamico che dialoga costantemente con parti di sè e con gli altri, a mio parere, quando si tratta di parti interne, per riconoscerle e distinguerle è più facile immaginarle e sentirle come i personaggi di una commedia. Io mi aiuto spesso, anche in terapia, con questa idea del teatro interno (che non è mia, ma di Moreno).
Qui potrete notare una parte più statica e contradditoria, quella della madre, e una più dinamica e testarda, quella della figlia. Qui, come nel tempo congelato e artificiale della situazione analitica, può realizzarsi la possibilità di essere al contempo madre e figlia, in un processo circolare che permetterà ad entrambe di aprirsi a un modo di vivere più libero e creativo.
5) Infine: assumendo quell’ottica interiore di cui vi dicevo, cercate di collegare gli avvenimenti gli uni agli altri e di collegarli a quelli della vostra vita. Perché la storia di Lucilla è solo un esempio, preso fra i tanti che abbiamo intorno. Ci vuole coraggio, senza dubbio, a collegare; sarebbe più facile pensare, come fanno i più, che tutto avvenga per caso. Ma quello che accade ha un senso. Per spiegarlo meglio, vi leggerò il discorso che faceva a Lucilla un personaggio che si è perduto con la prima stesura, la zia Adele.
E’ una donna semplice, che vive qui, nel Vergante.
Diceva:
“Lo vedo anch’io che non sono un’esperta che si è perduto il senso della vita, al giorno d’oggi. Perché il senso alla vita glielo diamo noi, con le emozioni che proviamo, con la gioia, la rabbia, l’amore, il dolore. Mi indispone chi ripete, come una lagna: ”Sono sfortunato, la mia vita non ha senso, è infelice e non ho speranza che cambi. Sai quante ne conosco di persone così? E magari ti invidiano, invidiano chi, secondo loro, è più fortunato, chi sembra contento, sorride e supera con coraggio le difficoltà. Ma, dico io, ognuno è artefice del proprio destino e il senso alla sua vita glielo dà lui, sentendosi protagonista! Io, come sai, ho lavorato tanto all’uncinetto e la vita me la immagino come una di quelle coperte formate da tanti quadratini di fili colorati: un mosaico di lana.
Ebbene: ogni quadratino, ogni tassello del mosaico ha una necessità, è utile al disegno globale. Ogni esperienza è utile, se la colleghi a un’altra e ascolti le emozioni e i sentimenti che la rendono unica.
C’è un filo che unisce gli episodi di una vita, gli incontri, le persone: te ne accorgi quando sei a metà strada, o forse ancora più in là: lo vedi e ti rendi conto che sei tu a tirarlo, è nelle tue mani.”