Se "Il filo" è l'esordio acerbamente interessante di Camilla Moro, questo suo " Rito di iniziazione" ne firma la naturale e intrigante evoluzione artistica e, con tutta probabilità, personale.
La vicenda è nell'incontro-scontro fra due nature verosimilmente estranee. Dacia, donna bellissima quanto tagliente, sensuale quanto ruvida, appassionata quanto schiva, è quanto mai sentimentalmente spietata e cinica.
Ma la sua ritrosia esteriore è un calco tutelare di un fuoco pronto a erompere da un momento all'altro, di una straordinaria elettricità fisica in grado di "far impazzire gli uomini". Andrea, uomo volitivo, caparbio, esperto, attratto dalle donne almeno quanto loro lo sono di lui, "accarezza con lo sguardo ogni cosa" e non può non invaghirsi della "gatta" che è Dacia, scontrosa e arrendevole, incostante come gli appare fin dal primo claustrofobico impatto, al chiuso di un ascensore.
Nel momento stesso in cui si conoscono e si riconoscono, i due divengono amanti e nelle lunghe ore passate nella "casa rosa" emerge sempre più profondamente quanto Dacia sia restia a lasciarsi andare, ad assaporare, a esplorare, a lasciarsi esplorare e a esplorarsi, poiché, se lo facesse, in fondo sarebbe come consegnarsi alla vita. E la vita, dice Camilla Moro, "è la dimensione dell'abbandono e Dacia stenta a ritrovarla".
E' Andrea a riconsegnargliela allora, a permetterle, lasciandosi completamente utilizzare, di scoprire l'amore, la passione, l'abbandono, attraverso il suo amore e il suo abbandono.
E' lui che, essenza- non aliena ai tormenti dell'esistenza e del rapporto con la donna "con i capelli di fuoco" – irrimediabilmente e furiosamente transitoria nel vissuto di Dacia, le lascia quello che poi diverrà per lei un vero e proprio "rito di iniziazione" alla vita stessa, attraverso il lungo e tortuoso percorso introspettivo e fisico, a tratti fortemente voluto, a tratti inconsapevole, il simbolo del suo ritrovamento come donna e come persona.
Camilla Moro cerca, esplora, fuori e dentro, analizza l'esperienza umana nel sesso femminile e nel suo duale, sviscera le genetiche e antitetiche dinamiche del rapporto fra i due sessi, cogliendone fulminee sensazioni, laceranti angosce, istintualità represse dalle proporzioni sociali che, seppure collocate in quelli che definiremmo "2 i tempi della donna aggressiva", sono figlie e schiave di identità pedissequamente pre-femministe.
Questa è la grande forza della sua scrittura delicata e travolgente, armoniosa e impudica al tempo stesso. Saper sollecitare la percezione analitica di fronte agli interrogativi interiori che genera il trascorso di ognuno di noi. Nondimeno, viene da pensare che questa grande capacità ne sia al tempo stesso l'ostacolo maggiore. Troppo spesso, volendo figurare Dacia a letto, con gli occhi chiusi, la chioma rossa scarmigliata sul petto glabro dell'uomo che tenta di schivare il più possibile, dell'uomo che la stringe a sé per non farsi sfuggire quel poco che di lei riesce invece a trattenere, la si immagina piuttosto sdraiata sul lettino di un analista, con le mani incrociate sul grembo nel tentativo di raccontarsi nel momento in cui il reale si confonde con l'onirico e riporta Dacia nella stanza del proprio inconscio, costringendola a scardinare i perni della sua reticenza, non si vede il corpo sinuoso dai capelli rossi abbandonato al dormiveglia, al più contratto da una tensione quasi addominale, ma una donna che si ricostruisce piano piano attraverso tecniche di regressione ipnotica o rebirthing, le gambe rigidamente allungate nello spasimo di ricordare o dimenticare.
Se proprio è da muovere una critica a quest'ammaliante penna, è proprio questa, che a tratti appare prigioniera di se stessa.